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Gli italiani? Un popolo che rischia di dimenticare la propria storia

Gli eventi epocali e i grandi uomini che fondano una comunità politica - o la fanno assurgere al rango di “grande potenza” sotto il profilo militare, economico, culturale - alimentano i “miti collettivi”, matrici delle identità etico- politiche degli individui e dei gruppi sociali. A differenza delle ideologie - elaborate da una ragione tendenzialmente egualitaria e universalistica - i miti non sono una fedele registrazione del passato ma un racconto edificante, destinato a unire gli spiriti e a farli sentire parte di una grande famiglia - soprattutto quando Annibale è alle porte e la difesa della “patria” può comportare perdite di beni e di vite umane. Nel mito si rimuovono i lati oscuri della storia: il fatto, ad esempio, che la bandiera a stelle e strisce sventolava sui reggimenti che massacravano le tribù indiane - o le ricacciavano in riserve sempre più sterili - o che il tricolore era inalberato nei luoghi in cui il Maresciallo Rodolfo Graziani sterminava migliaia di etiopi, come rappresaglia al fallito attentato di Addis Abeba. È inevitabile che sia così giacché i legami comunitari - dalla famiglia alla nazione - riscaldano e danno vigore per ciò che hanno avuto di positivo: quando pensiamo con tenerezza alla nostra famiglia, ai parenti che non ci sono più, solo per un attimo ci vengono in mente i conflitti talora esasperati, i drammi, le incomprensioni, le ribellioni che abbiamo vissuto giacché tutto il dolore che la convivenza ha cagionato viene poi riscattato dai momenti idilliaci, dalle festività che hanno ricongiunto nonni, genitori, figli, zii, cugini, dalla solidarietà di cui talora abbiamo beneficiato nei giorni bui. Certo il “racconto della comunità” non è la “storia della comunità” ma la seconda non è neppure una sterile denuncia dei miti della prima. Come scriveva Benedetto Croce, in una stupenda pagina di Storiografia e idealità morale, «la storia è storia di quel che l’uomo ha prodotto di positivo, e non un catalogo di negatività e d’inconcludente pessimismo». I francesi il 14 luglio celebrano la Bastiglia con una grande festa che fa incontrare per le strade cittadini di tutti i ceti ( e oggi di tutte le razze): sono gli storici, da Alexis de Tocqueville a François Furet, a dirci che cosa fu veramente la Rivoluzione francese e a illustrarne le tante luci e le non meno numerose ombre.

Nel nostro paese, forse anche per essere stata l’Italia un vuoto di potere che, nei secoli, le grandi monarchie europee hanno tentato di riempire manu militari - ingenerando nei popoli della penisola l’attitudine dell’arrangiarsi e al “si salvi chi può”, Franza o Spagna purché se magna.., e un tenace scetticismo nei confronti di uomini e di istituzioni - il mito politico di fondazione, il Risorgimento, ha sempre trovato, pronto a farlo a pezzi, lo spirito beffardo, che “non se la beve”: una figura patetica che, sotto la maschera dell’uomo superiore - dell’Übermensch - rivela solo la miseria spirituale di un popolo, almeno in una sua larga parte, rimasto suddito e, quindi, privo di identità e di dignità.

A queste considerazioni mi ha portato la lettura della prima pagina di Libero del 18 marzo che recava un titolo a caratteri cubitali “Ma quale festa per i 157 anni dell’Italia. Lutto nazionale e un sottotitolo “L’unità è un’invenzione politica e re- torica…”. Nell’articolone di Renato Farina, si leggono frasi come queste: «Non esiste niente di più lontano dall’unità dell’Italia. Da quando in qua si brinda davanti a un fallimento?... questa unità non c’è mai stata... per gravissime colpe storiche delle nostre classi dirigenti, e starei per dire della tanto osannate crème piemontese e gari- baldina... In realtà, per paradosso, la proclamazione del 17 marzo 1861 sancì sì lo Stato unitario, ma soprattutto consacrò la rottura di una unità spirituale della nazione» Stando all’apota Farina, «l’Italia intesa come nazione, come popolo, esisteva da secoli a dispetto delle mire unitarie dell’élite culturale illuminista e abbastanza imperialista». Ma in che senso ci si si chiede? E qui spunta fuori il cattolico tradizionalista, dimentico che senza i cattolici liberali e i liberali cattolici il Risorgimento non si sarebbe mai realizzato. Per lui l’Italia, prima dell’infausto 1861, esisteva come «popolo cattolico unito non tanto dalla lingua italiana ( parlata soltanto dalle classi colte) ma dal latino, che forse era compreso a senso ma di certo parlato in tutte le case» un’identità, peraltro, allargata a francesi, spagnoli austriaci, ungheresi che qualche dimestichezza col latino avevano anche loro. Farina, sicuramente uomo di destra, mostra, comunque, di non aver pregiudizi: toglie dalla soffitta della storia, per riproporlo in salsa veteroleghista, l’antirisorgimentismo della vecchia sinistra marxista quella della “conquista regia” e della colonizzazione del Sud: «l’unità imposta con le armi, seguita dalla brutale repressione del brigantaggio; l’imposizione di una burocrazia straniera; la rapina da parte dei Savoia - silente Garibaldi dell’oro conservato nei forzieri del Banco di Napoli... La leva obbligatoria, mai conosciuta prima nelle Due Sicilie, con l’imposizione della divisa e dell’obbedienza a ufficiali incomprensibili».

Forse è tempo perso ricordargli 1) che il Risorgimento, lungi dal costituire un repertorio retorico continuo e martellante, nell’Italia del secondo dopoguerra era così rimosso - a parte certe letture obbligate e certe cerimonie politiche - che a un liceale degli anni Cinquanta ( come me) appariva un trascurabile evento della storia europea ( più tardi mi resi conto della sua rilevanza leggendo i grandi storici dell’Ottocento francesi, russi, inglesi e tedeschi); 2) che il Risorgimento, come la Rivoluzione francese, fu alle origini di una grande stagione di ricerche magistrali, promosse, soprattutto, da storici meridionali - il fior fiore della storiografia del Novecento: da Gaetano Salvemini a Gioacchino Volpe, da Benedetto Croce ad Adolfo Omodeo, da Rosario Romeo a Giuseppe Galasso; 3) che la “questione meridionale” ( brigantaggio, emigrazione etc.) non può essere liquidata da qualche battuta di giornalisti tesi a épater les bourgeois, come Paolo Granzotto, Lorenzo del Boca, lo stesso Farina: ci sono studi fondamentali al riguardo - l’ultimo dei quali è l’aureo saggio di Guido Pescosolido, La questione meridionale in breve ( ed. Donzelli) ma si veda anche Borbonia felix di Renata De Lorenzo ( ed. Salerno) - che fanno giustizia di tanti luoghi comuni.

Uno storico di fede repubblicana scomparso di recente, Giuseppe Galasso, commentando sul Corriere della Sera del 22 agosto 2016, un vecchio saggio di Luigi Salvatorelli, Casa Savoia nella storia d’Italia, scriveva: «In linea generale, appare difficile accogliere il giudizio di sostanziale estraneità dei Savoia alle radici e alle logiche della storia d’Italia. Già almeno dal secolo XIII in poi l’Italia appare il teatro principale della loro storia, ed è semmai il trasferimento della loro capitale a Torino tre secoli dopo ad apparire un atto tardivo rispetto a un orientamento emerso già da tempo, per quante incertezze o ritorni si siano poi avuti nel seguirlo e realizzarlo. E, in sostanza, è facile constatare che le mende rintracciate nei Savoia si ritrovano pure in qualsiasi altra dinastia o Stato italiano prima dell’unificazione. Invece, la scelta costituzionale del 1848, con l’accettazione di una prassi politica molto lontana da quelle anteriori, fu solo dei Savoia, né la finale, tenace adesione e complicità fascista può portare a una totale vanificazione del precedente ruolo dei Savoia nella storia italiana, in particolare del Risorgimento». “Questa è storia! ” e storia di un grande popolo. Articoli come quello di Renato Farina dimostrano, invece, che stiamo diventando “un popolo senza storia” anzi una plebe di dissacratori che riconosce il suo eroe solo in Tersite.

UN ARTICOLO DI RENATO FARINA SU LIBERO METTE IN DISCUSSIONE IL VALORE DELL’UNITÀ.

SEMPRE PIÙ SPESSO SCEGLIAMO COME SIMBOLO L’ANTI- EROE CODARDO TERSITE

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